Intervista a Marco Fiumara.

Intervista a Marco Fiumara.

Posted in 18/11/2017

In settimana abbiamo ricevuto la visita di Marco Fiumara, ha portato L’Emmy da ammirare e condividere la sua emozione, soddisfazione e felicità. Una emozione indiscrivibile che ci ha indotto a dimenticare di brindare con le bollicine che avevamo preparato.
L’emozione non ci ha però impedito di fare alcune domande a Marco e ai suoi preziosi collaboratori Luigi Pini e Claudio Bagni.

Marco, Cosa si prova a vincere l’Emmy Award?

Beh, la sensazione è stata davvero strana, anche perché purtroppo non sono potuto andare a Los Angeles per la cerimonia. La domenica mattina all’alba ho ricevuto una mail di felicitazioni da Andy D’Addario, il fonico di mix con cui ho condiviso il premio, e una foto da un amico Sound Designer che era presente alle premiazioni e questo, chiaramente, ha un po’ “raffreddato” l’emozione del momento.

Poi ho cominciato a telefonare ad amici e parenti e a postare la cosa su Facebook e l’entusiasmo degli altri mi ha rapidamente contagiato. Ma la prima vera emozione l’ho provata quando ho visto il video sul sito dell’Academy e ho sentito scandire il mio nome più volte. Quella voce che gridava al microfono “Marco Fiumara: one nomination, one win” mi ha fatto venire i brividi e, al tempo stesso, mi ha fatto capire quanto ero stato fortunato a prendere un Emmy alla prima partecipazione.

Nel complesso direi che sto vivendo la cosa per gradi, crogiolandomi nella soddisfazione a fuoco lento. E credo che di essermi cotto a puntino fino a quando non è arrivata la bellissima statuetta.

Detto questo, e non lo dico per falsa modestia, il mio vero premio è la stima dei colleghi. So che molti fonici italiani mi stimano molto e me lo hanno detto più volte. E cosa c’è di meglio dell’apprezzamento di chi fa il tuo stesso lavoro? E’ come se leggessi un intervista a Mark Knopfler, o a Eric Clapton, che dicono: “Ehi, c’è quel chitarrista di una band semisconosciuta. Lui sì che è uno forte…!” Dopo hai ancora bisogno che ti diano un premio per credere in te stesso?

Marco a inizio carriera avresti mai immaginato di coronare questo sogno?

Credo che chiunque lavori nel cinema e nello spettacolo in generale culli prima o poi il sogno di vincere un premio importante. Non avrebbe senso fare un lavoro che ti chiede così tanto in termini di impegno professionale, ma anche emotivo, senza desiderare di vedere riconosciuti prima o poi i propri sforzi e le proprie qualità.

Per quanto mi riguarda, sono stato già candidato ai Nastri d’Argento, ai David e (cosa che ho scoperto solo recentemente) ai Ciak d’Oro, ma un premio che arriva dalla patria della grande industria cinematografica ha davvero un altro sapore.

Marco, negli ultimi due anni hai fatto Ben Hur e Mozart in the Jungle: cosa deve fare un fonico italiano per poter avere accesso a questi lavori?
E’ un po’ di tempo che lavoro spesso con produzioni americane e devo dire che molti colleghi che conosco e che stimo potrebbero tranquillamente competere con i fonici stranieri, francesi, inglesi o americani che siano.

Quello che manca a noi italiani è solo un po’ di attrezzatura in più, una conoscenza reale dell’inglese parlato e scritto e, soprattutto, l’abitudine a lavorare a certi livelli. La tecnica, in fondo, è sempre la stessa e in molti casi i nostri fonici la conoscono meglio (e hanno anche più gusto) dei nostri omologhi d’oltreoceano. Dobbiamo però fare ancora uno sforzo culturale per capire come lavorano loro; qual è l’atteggiamento mentale e professionale richiesto a certi livelli; come interagire con registi, attori e produzioni. E questo non è scontato.

Bisogna innanzitutto essere aperti e uscire dalla mentalità un po’ provinciale della nostra industria cinematografica. Da noi, purtroppo, i pilastri fondamentali del fare cinema sono diventati il Soldo e il Non-rompere-le-scatole. Questi sono i valori che ti vengono sottilmente inoculati giorno dopo giorno, anche se nessun produttore italiano avrà mai l’onestà di confessarlo apertamente.

Per gli americani invece la prima cosa è il Prodotto, ovvero la qualità di quanto viene messo in scena, ripreso, montato e infine proiettato. E questo innesca un atteggiamento completamente diverso fino dalla preparazione di un film. Non è vero che ci siano solo molti più soldi, ma piuttosto che quei soldi vengono spesi in un altro modo e con altri fini. Quindi paghe più adeguate, tempi più lunghi di preparazione e di post-produzione, rispetto delle professionalità e delle richieste tecniche, ecc.
Ma maggiore disponibilità comporta, come è giusto che sia, maggiori responsabilità e bisogna rispondere a questa meravigliosa opportunità che ti viene data con impegno assoluto, concentrazione massima e rispetto dei tempi e delle richieste produttive.

Quanto ha influito la scelta dei collaboratori e dell’attrezzatura?

L’intesa con i miei collaboratori è la preparazione dell’attrezzatura sono i due elementi chiave per fare un buon lavoro a questi livelli.

Come amo ripetere da un po’ di tempo, oggi il fonico di presa diretta lavora molto meno sul set e molto di più in preparazione. Quello cha fa la differenza oggi è arrivare al primo giorno di riprese con: un ottimo lavoro di spoglio; la conoscenza diretta delle location; una collaborazione avviata con il reparto costumi; una preparazione minuziosa del materiale (soprattutto radiomicrofoni, sistemi Time Code e organizzazione del workflow); divisione dei ruoli e delle responsabilità con il microfonista e con gli altri assistenti al reparto.

Se tutti questi tasselli sono a posto, il lavoro sul set diventa spesso solo una formalità.

Per questo insisto ancora, e insisterò sempre, perché le produzioni italiane aggiornino il loro modo di lavorare e dedichino più tempo e denaro alla preparazione di un film. E per questo considero un anacronismo assurdo che in Italia, nel 2017, i fonici ancora non vengano invitati regolarmente a fare i sopralluoghi e che non venga pagato loro un periodo congruo di preparazione.

Io personalmente dedico alla preparazione di ogni progetto medio-lungo un periodo variabile fra una e due settimane piene. E so che da quelle giornate dipende al 90% la riuscita del film.

Non siamo più negli anni ‘80/’90, quando io ho cominciato. Allora i problemi si risolvevano, nella quasi totalità dei casi, trovando soluzioni rapide e inventive sul set stesso.

Oggi se non ho radiomicrofoni perfettamente performanti, sistemi di ricezione efficienti, una organizzazione logistica del materiale ineccepibile, ecc. non posso fare un buon film, soprattutto a certi livelli.

Io penso di non essere che una delle gambe su cui si poggia il “tavolo” della ripresa sonora e, in questo caso, le altre “gambe” erano il meglio che si potesse desiderare.

Luigi Pini è un microfonista eccezionale, con una gestione del set ineccepibile, una grande capacità di rapportarsi con troupe e attori e di grandissima creatività nel mettere i radio.

Claudio Bagni non solo è uno dei giovani fonici italiani più dotati e interessanti, ma si è rivelato uno straordinario operatore playback; e vi assicuro che su un progetto come Mozart non è un compito affatto semplice.

Last but not least l’apporto di Audionoleggio è stato fondamentale. Oltre a fornirci, come al solito, materiale di ultima generazione e di altissima qualità, Walter e i suoi ragazzi ci hanno offerto ancora una volta delle soluzioni brillanti per affrontare anche le situazioni più impegnative.

Luigi, un microfonista moderno deve essere bravo e veloce con l’asta e con i radio, come riesci a gestire questi due strumenti così lontani tra loro?

Un microfonista oggi deve fare i conti per il 90% del suo tempo con i radiomicrofoni,il che significa due cose: innanzitutto ci vuole molta creatività per farli suonare bene ma la cosa più importante è che si mettono le mani addosso alle persone e questo implica una serie di accorgimenti di tecnica e di buona educazione,a mio avviso,enorme per portare a casa il risultato.

Con questi presupposti usare l’asta diventa un piacere svincolato dai rapporti interpersonali con gli attori e il loro staff di costumi e acconciatura,sopratutto perché le “ombre”ormai non ci sono quasi più.

Claudio hai lavorato alcuni anni a los angeles, quali diffrenze hai riscontrato tra il reparto audio americano e il reparto audio italiano di mozart in the jungle?

Ho vissuto circa 5 anni negli U.S.A. ed ho avuto la fortuna di poter vedere da vicino il modo in cui i reparti suono americani affrontano film per il cinema e serie tv. Il loro modo di lavorare è molto professionale e scrupoloso soprattutto nella pre produzione nella quale sono bravi ad organizzarsi in anticipo su tutte le esigenze tecniche che si troveranno ad affrontare. Sicuramente noi italiani abbiamo molto da imparare dal loro modo di fare ma dobbiamo anche essere orgogliosi della nostra capacità di adattarsi immediatamente a qualsiasi condizione anche se disponiamo di un budget minore. Credo che la cosa migliore per noi sia prendere spunto da loro senza perdere la nostra storica artigianalità.

Luigi e Claudio ci raccontate un episodio accaduto durante le risprese di Mozart in The Jungle che porterete sempre con voi.

Luigi: Di tutto quello che è successo in 5 settimane di riprese su un lavoro così articolato e fuori dagli schemi,mi piace ricordare il rapporto di fiducia e reciproco rispetto che si è creato con Gael García Bernal in pochissimo tempo.

Proprio la sua classe e professionalità ci hanno permesso di lavorare con grande disinvoltura e trovare le soluzioni migliori senza stress,con piacere.

Quando ho capito questa cosa ne ho parlato subito con Marco e gli ho detto:” Marco,con Lui è tutto più facile…”

Non succede spesso,a volte è una specie di corsa ad ostacoli poi la serie aveva vinto l’Emmy per il suono l’anno precedente…

Claudio: Porterò sempre con me il ricordo di una scena dell’episodio “Now I Will Sing” nella quale ha inizio il concerto de “La Fiamma” (cantante lirica interpretata da Monica Bellucci) sotto il ponte dell’accademia sul canal grande di Venezia. Lo spettacolo inizia con Monica Bellucci e Placido Domingo che diretti da Rodrigo (Gael Garcia Bernal) eseguono la performance su due chiatte separate che finiscono con l’incontrarsi nel mezzo del canale formando un’unica zattera che diventa un vero e proprio palcoscenico a cielo aperto. Scena tecnicamente complicata da affrontare ma affascinante allo stesso tempo per come l’ho vissuta. Mi trovavo assieme ai protagonisti , immerso nella scena coperto solamente da un telo nero e dovevo gestire il playback delle tracce musicali. A fine lavorazione abbiamo ricevuto i complimenti di Paul Weitz , regista dell’episodio, che ha apprezzato molto la  professionalità del reparto suono e il modo in cui abbiamo contribuito alla realizzazione della scena.

Marco sei il primo Fonico Italiano a vincere l’Emmy, quali consigli ti senti di dare ai giovani fonici che iniziano la loro carriera?

Studiare, studiare, studiare! Studiare di tutto. Leggere, ascoltare musica, suonare, andare alle mostre, viaggiare… Insomma non solo conoscere a fondo la propria materia ma continuare sempre a coltivare la curiosità.

Essere capaci di parlare e interagire creativamente con un regista australiano, un produttore francese o un capo-macchinista neozelandese non dipende solo dal vostro livello di conoscenza della lingua o dalla vostra competenza professionale, ma anche dalla vostra crescita personale, dai vostri interessi, dalla vostra apertura verso il mondo.

E tenete la schiena dritta. Non vi abbassate al compromesso fin dall’inizio della vostra carriera. Non vi fate trattare come se il vostro lavoro non contasse nulla o come se al vostro posto ci potesse essere chiunque altro. Se portate la vostra personalità e la vostra cifra specifica nel lavoro allora siete unici e la vostra unicità finirà per emergere e prima o poi vi porterà i riconoscimenti che meritate.

E a quel punto vi accorgerete, spero, che vincere un Emmy in più o meno non fa tutta questa differenza.